Miniere, ambiente e politica: la guerra per il Nagorno-Karabakh entra in una nuova fase

Gold mining in Nagorno Karabakh
Immagine della miniera d’oro di Sotk nella regione di Vardenis nel Nagorno-Karabakh/Artsakh (Credits: Beko, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)

Geopolitical Report ISSN 2785-2598 Volume 26 Issue 4
Autore: Emanuele Aliprandi

Quando lo scorso 3 dicembre 2022, per circa tre ore un gruppetto di “ambientalisti” azeri bloccò all’intersezione di Shushi/Shusha la strada tra Stepanakert e Goris, ovvero l’unico vitale collegamento tra il Nagorno-Karabakh/Artsakh e l’Armenia, in molti hanno pensato che l’azione potesse essere inquadrata come una delle tante provocazioni diplomatiche organizzate dall’Azerbaigian a due anni di distanza dalla fine dell’ultima guerra regionale.

Quel blocco, che aveva costretto qualche decina di automobilisti a incolonnarsi in attesa della riapertura della strada in una fredda e nebbiosa mattina di fine autunno, era stato invece niente altro che la prova generale di un intervento più massiccio di lì a qualche giorno e di un preciso piano preordinato da Baku.

Ufficialmente i manifestanti richiedevano chiarimenti circa lo sfruttamento minerario nel territorio controllato dagli armeni. In particolare, le loro attenzioni erano rivolte a due miniere situate nei pressi del villaggio di Vardadzor (Gulyatagh), nella regione di Martakert, poco a sud del bacino idrico di Sarsang e non lontano dalla nuova linea di contatto così come determinatasi dopo la guerra.

Gli azeri si dicevano preoccupati dall’attività mineraria in loco per le ricadute sull’ambiente e richiedevano di poter effettuare un monitoraggio su tali imprese minerarie appartenenti alla società “Base metal CJSC” che, detto per inciso, è il maggior contribuente fiscale della repubblica di Artsakh con circa 18,7 miliardi di dram (44 milioni di euro) pagati in tasse nel 2019.

Interessi azerbaigiani nei complessi minerari in Artsakh

Base metal CJSC, che inizialmente gestiva il solo impianto di Drmbon (oro e rame, peraltro in esaurimento), ha poi trasferito la propria principale attività nella miniera di Kashen/Vardadzor, per gli azeri Gizilbulag, (rame e mobildeno) il cui sfruttamento è iniziato nel 2013 con un impiego di maestranze per circa 1450 posti di lavoro, numero non certo insignificante in uno Stato che contava prima dell’ultima guerra una popolazione intorno alle 150.000 unità. L’incidenza economica e lavorativa di tale attività mineraria (il 13,7% del PIL della repubblica de facto dell’Artsakh) è inevitabilmente entrata al centro dell’attenzione dell’Azerbaigian nell’ambito di un progetto a breve e medio termine finalizzato al progressivo indebolimento dell’istituzione armena nel territorio conteso.

Non deve così sorprendere la notizia apparsa sui media azeri che i “manifestanti” per l’ambiente erano in realtà “dipendenti del Ministero dell’ecologia dell’Azerbaigian e di AzerGold CJSC” (e pare anche soldati ed ex militari in abiti civili) e aspiravano a “indagare e monitorare la situazione con lo sfruttamento illecito delle risorse minerarie in questi territori dell’Azerbaigian e le relative conseguenze ambientali sulla base della richiesta del Ministero dell’Ecologia e delle Risorse Naturali”.

Secondo quanto riferiscono fonti azere, vi sarebbe stata una interlocuzione con il Comando delle forze di pace russe (presieduto dal generale Volkov) e la promessa di un accesso agli impianti in questione.

Il giorno 11 dicembre 2022, infatti, un gruppo di azeri sarebbe stato accompagnato e scortato dai russi proprio a Kashen dove però avrebbe trovato la resistenza delle maestranze che hanno impedito l’accesso – non concordato neppure con le autorità governative locali – all’impianto.

La reazione dell’Azerbaigian è stata inevitabilmente dura; per quanto non siano mancate in passato iniziative di dialogo tra tecnici e funzionari delle due parti,[1] il mancato raggiungimento di un accordo per l’ispezione dell’impianto minerario di Kashen (e l’area contigua di Damirli dalla quale si estrae circa una tonnellata d’oro all’anno) ha provocato la contromossa del 12 dicembre 2022 allorché alcune decine di presunti “attivisti per l’ambiente” azeri hanno bloccato la strada che collega Stepanakert all’Armenia.

La pattuglia dei manifestanti si è andata progressivamente ingrossando fino a raggiungere circa quattrocento unità, presenti anche molti cine-fotoreporter, e si è installata con gazebo e strutture mobili confrontandosi, a volte anche animatamente, con i peacekeeper russi; si sono aggregati dopo alcuni giorni anche diversi soldati azeri in violazione, peraltro, dell’accordo di tregua che considera il corridoio di Lachin sotto esclusiva competenza della forza di pace russa.

A tale blocco stradale si è aggiunto anche quello del gas la cui condotta proveniente dall’Armenia attraversa il territorio controllato dall’Azerbaigian. Per quattro giorni, la popolazione del Nagorno-Karabakh/Artsakh è rimasta senza riscaldamento, senza acqua calda e senza la possibilità di cuocere il cibo. L’interruzione ha determinato la necessità di razionare i carburanti e varare disposizioni per l’utilizzo delle risorse disponibili. Circa un migliaio di persone sono rimaste intrappolate fra le due parti, impossibilitate a ritornare alle proprie abitazioni.[2]

Dopo cinque giorni di freddo il gas, anche per le pressioni internazionali su Baku, è stato ripristinato mentre è rimasto il blocco stradale e da Stepanakert si è cominciata a ventilare la possibilità di aggirare la chiusura della strada con un ponte aereo sull’aeroporto di Ivanian nei pressi della capitale nonostante la minaccia azera di abbattere qualsiasi velivolo in avvicinamento.

Conclusioni

Ora, è evidente che – a prescindere dalla contrapposizione politica tra armeni e azeri e dalla strategia di Aliyev per accelerare il processo di pieno controllo di tutta la regione – la ‘questione ambientale’ è solo un pretesto. Invero, ci sono due fattori che segnano profondamente la questione.

In primo luogo, va ricordato come l’Azerbaigian abbia siglato nel 1997 con la inglese “Anglo Asian mining Plc” un accordo (Production sharing agreement) di sfruttamento delle risorse minerarie di tutta la regione e, complice anche la nuova situazione politica scaturita dal conflitto, Baku intende rivendicare il possesso di tutte le risorse presenti nel territorio “temporaneamente occupato dalle forze di pace russe”, espressione utilizzata per indicare l’area armena.

Le miniere di Gizilbulag e di Damirli sono significativamente importanti per il mercato minerario regionale e questo spiegherebbe l’attenzione riposta dalle autorità azere, dalla “Anglo Asian mining” e dalla “AzerGold”,  con la conseguente attenzione allo sfruttamento minerario da parte degli armeni e la decisione di intervenire per bloccarlo anche per indebolire economicamente la controparte.

Già era accaduto subito dopo la fine della guerra che l’Armenia perdesse il controllo della importante miniera d’oro a cielo aperto di Sotk (un migliaio di addetti e principale contribuente fiscale di Yerevan) che si trovava proprio sul confine con la regione di Karvachar/Kalbajar che a seguito dell’accordo era finita sotto controllo azero.

Secondo il magazine azero Caliber, i controlli satellitari e quelli eseguiti dalle postazioni sulle alture del Karabakh[3] avrebbero evidenziato movimenti notturni di camion Kamaz dal 10 al 14 novembre 2022 dalle ore 21 alle ore 23 che, a detta della fonte, sarebbero la prova del trasferimento dell’oro dal Karabakh all’Armenia.

Di qui la necessità di andare a vedere direttamente la situazione nell’impianto e il blocco della strada preceduto a novembre da ripetute richieste di installare checkpoint azeri sulla predetta arteria. Considerato che le miniere sono in esercizio da quasi dieci anni, è difficile pensare che si tratti solo del problema di qualche trasporto occasionale ma è più agevole ritenere che tutta l’operazione di blocco stradale sia motivata da un ulteriore cambio di passo nella strategia di ‘accerchiamento’ da parte di Baku sulla piccola repubblica armena de facto oltre che dall’interesse economico della società britannica[4].

Si può quindi ritenere la questione ambientale di secondaria importanza rispetto al vero business core dell’operazione, ovvero il controllo delle risorse del territorio. A rimetterci, come al solito, è la popolazione locale che sta affrontando l’ennesima crisi umanitaria nella sostanziale indifferenza dei media internazionali.

Note

[1] Da ultimo la gestione del bacino idrico di Sarsang con una visita di una delegazione azera sulle sue sponde.

[2] Fra queste una ventina di bambini che avevano assistito alla finale dell’Eurovision song contest junior a Yerevan. Su tale notizia si veda tra gli altri “Junior Eurovision 2022, i bambini dell’Artsakh non riescono a tornare a casa

[3] Ecco forse una spiegazione alla conquista azera, nel marzo 2022, del colle di Karagluk dalla sommità del quale si controlla buona parte della piana di Askeran.

[4] A sorpresa è arrivato a Yerevan il 16 dicembre 2022 Richard Moore, il capo del servizio segreto britannico MI6 nonché già ambasciatore in Turchia; alcuni osservatori hanno collocato la visita di Moore nella cornice di una pressione inglese per la tutela degli interessi economici della “Anglo Asian mining”.


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